Ci fermiamo solo una notte al Marina di Teulada: giusto in tempo per fare un bagno nella vicina spiaggia di fronte all’isola Rossa e per una buonissima cena al bar del porto e poi proseguiamo verso Carloforte.
Non c’è troppo mare ma purtroppo passo un po’ di ore con il mal di mare… devo trovare una soluzione. Entriamo alla Marina di Siffredi al tramonto e ci rimaniamo per 3 notti in attesa che passi il maestrale.
A partire verosimilmente dall’VIII secolo a.C. l’isola di San Pietro fu colonizzata dai Fenici. Scavi eseguiti presso la torre di San Vittorio hanno messo in luce un tratto di cinta muraria fortificata e i resti di un edificio a pianta quadrangolare, oltreché un tesoretto di monete puniche in bronzo databili alla metà del III secolo a.C.
Tracce della presenza romana sono invece offerte da tombe rinvenute in diverse parti dell’isola. Tra loro, la testimonianza più consistente è costituita dalla necropoli ritrovata in località Spalmatore.
L’identità culturale carlofortina affonda le proprie radici nelle vicende vissute dalla originaria comunità di pescatori e commercianti di Pegli (Genova), partiti alla volta di Tabarka nel XVI secolo. Nell’isola tunisina, i progenitori degli attuali carlofortini si sarebbero stabiliti e avrebbero vissuto per un lungo periodo lavorando ilcorallo. Esaurito il corallo decisero di migrare ancora e nel 1738 alcuni tabarchini si rivolsero al re Carlo Emanuele III di Savoia, chiedendo l’assegnazione di una terra nella quale fondare il centro dei propri commerci con le altre città del Mediterraneo. La richiesta fu accolta, un atto di regolare infeudazione fu dunque firmato dal re perché l’attuale isola di San Pietro (allora ancora chiamata Accipitrum Insula, Isola degli Sparvieri) fosse concessa alla comunità che l’avrebbe di lì a poco abitata. In onore dello stesso re, il paese fu chiamato Carloforte.
Le epidemie falcidiarono i coloni appena giunti, che dovettero impegnarsi in una lunga e faticosa opera di bonifica delle aree paludose e malsane dell’isola. Altri coloni nel frattempo giungevano in aiuto da Tabarka, e qualche famiglia ligure di Pegli si univa alla comunità isolana. Ecco perchè a Carloforte si parla ancora il “Tabarchino” mischiato con il genovese.
Attività principali furono per anni le saline, le miniere ed infine la pesca del tonno.
Il primo giorno ci armiamo di scarponcini con i lacci gialli, di racchette e, seguendo i consigli della pro -loco ed una fantastica app fatta apposta per le camminate sull’isola, decidiamo di andare verso nord: 15km molto facili fino al Bricco Guardia dei Mori e poi giu fino al fungo di Pietra. Vediamo le scogliere e passiamo dai pini marittimi che nascono a 200 mt slm (massima altezza dell’isola) fino alla macchia mediterranea composta da timo, origano e altre erbe che profumano l’aria.
Il secondo giorno invece facciamo visita all’unica tonnara ancora operativa dell’isola gestita dai Greco di Genova. Ci accompagna la bravissima guida Natalia insieme ad altre 7 persone. E’ una visita esperienziale per cui ci distribuiamo prima sulla scogliera battuta dal maestrale e simuliamo la “tonnara a mare” (Fabio fa il rais, colui che comanda e decide quale tonno prendere): insieme di reti, galleggianti, catene, sommozzatori e barche che per 2 mesi da maggio a giugno rimangono in queste acque e spingono i tonni rossi in una serie di gabbie e dall’ultima (la camera ella morte) vengono poi estratti. Si chiama ancora mattanza ma non c’è piu’ sangue…questo grazie anche ai giapponesi che pagano fior di soldi questi tonni ma solo se giungono integri.
Entriamo anche all’interno della “tonnara a terra” e vediamo le ancore e le catene che fissano le reti sul fondo, le boe, le barche, i forni e anche il paesino per i tonnaroli che comprende alloggi e pure una chiesetta. Il tonno pescato ha 3 diverse destinazioni: i ristoranti del luogo, che lo comprano abbattutto e lo servono fino verso la fine di ottobre, i giapponesi, che lo comprano ancora vivo e lo trasferiscono in asia via aerea in gabbie ermetiche e le scatolette dove viengono messi i vari pezzi di carne preventivamente bollita, poi lasciata in salamoia ed infine messa sotto olio (rigorosamente olio sardo): ventresca, tarantello, filetto e buzzonaglia.
Ovvimanete comperiamo un po di scatolette
Ahhh dimenticavo….andiamo anche alla ricerca del Dots (ndr, la nostra vecchia barca veduta nel 2019) che sosta proprio qui…e la troviamo: che emozione. Quandi estati, quanti giorni felici abbiamo passato su questa barca che rimarrà per sempre nei nostri cuori. E’ proprio ancora lei anche se un po invecchiata…come tutti noi del resto. Mi sono venute le lacrime agli occhi.
Cene: proviamo diversi ristoranti… tutti buonissimi e consigliatissimi: Tonno di corsa, Da Andrea e Da Nicolo.
L’ultimo giorno infine noleggiamo le bici elettriche e andiamo alla scoperta della parte sud est dell’isola.
Costeggiamo le saline con acqua rosa e qualche fenicottero e poi saliamo saliamo fino ad arrivare il faro a Capo Sandalo. Facciamo il giro del faro (anche se sarebbe proibito) e ammiriamo il mare agitato sulle scogliere. Vediamo anche dei falchi della regina: ci sono qui circa 200 esemplari e nel mese di ottobre migrano tutti in Madacascar e tornano in primavera. Ripartiamo ma, ahime, di colpo le batterie delle bicilette vanno a zero e dobbiamo pedalare in salita facendo una fatica pazzesca. Prendiamo una strada sterrata per andare a La Bobba (baia che si trova a sud): alla faccia della sterrata, è praticamente una pietraia e dobbiamo spingere le pesanti bici sia in salita che in discesa. Faticosissimo. Per fortuna il paesaggio è stupendo: macchia verde, mare blu e cielo limpido spazzato dal maestrale.
Ci mangiamo un panino alla spiaggia di La Bobba guardando l’America’s Cup. La spiaggia sembra disegnata con il righello, pochissima gente ma l’acqua è fredda e non facciamo nemmeno un pucino.
Con gran fatica ritorniamo alla base.
Grande spesa alla Conad vicino che sarà l’ultimo supermercato italiano per tanto tempo. Faccio dunque il pieno di pasta Rummo, pasta sfoglia, pesto, formaggi e tanto altro.